lunedì 16 giugno 2014

Nessun dorma



Alla politica italiana, alla luce degli scandali dell'EXPO e del MOSE (prossimamente anche il TAV?), veniva richiesto a gran voce un segnale sulla strada della lotta alla corruzione. Puntuale, preciso e spedito, una “viva e vibrante” risposta è arrivata. La Camera dei Deputati ha approvato un provvedimento che inasprisce la responsabilità della Magistratura permettendo a chiunque di chiedere il risarcimento dei danni subiti dalla Giustizia (per manifesta violazione di un diritto e non solo per dolo o colpa grave) direttamente ai suoi attori e non, come avviene oggi, in maniera indiretta (e cioè con il tramite dello Stato). Quale potrà essere la naturale conseguenza di questo fatto? Difficile dirlo. Certamente, una pesante ombra cala sui vincitori delle ultime elezioni (il provvedimento è passato anche con i voti di una buona parte del PD) e sul Governo. Del resto, il premier Renzi aveva recentemente affermato che il problema della corruzione in Italia non era dovuto ad un deficit di regole ma alla presenza di “ladri” nelle file dei partiti. A tratti, questa dichiarazione ricorda quella di G. W. Bush allo scoppiare degli scandali finanziari di inizio secolo che coinvolsero (e travolsero) colossi dell'economia statunitense come la Lehman Brothers. L'ex Presidente USA spiegò che il sistema andava bene, che era forte ma che in esso si trovavano delle “mele marce”. L'immagine evocativa dei migliori concetti dell'agricoltura (l'albero è sano ma va potato di rami e frutti che lo indeboliscono) colpì l'opinione pubblica e venne ripreso da quasi tutti gli organi d'informazione. A distanza di più di un decennio un italiano (il Premier) riprende questo leit motiv e anziché affrontare il problema con il suo solito piglio (lui stesso si definisce un politico del “fare”) tentenna e minimizza lasciando a noi operatori dell'informazione il sospetto che a risolvere questo grattacapo non possa essere la politica (che evidentemente non può o non vuole farlo), né la popolazione (che ha riconfermato questa classe dirigente) ma ancora una volta la Magistratura. A tutt'oggi, è l'anello debole della catena che deve farsi carico della solidità della legatura. Per il suo stesso bene.

La breve polemica tra Giovanni Papini e Julius Evola





Giovanni Papini (1881-1956) e Julius Evola (1898-1974) si conobbero durante la breve esperienza papiniana di adesione al Futurismo, il movimento artistico creato nel 1909 dal vulcanico Filippo Tommaso Marinetti.
Il futuro scrittore cattolico, già reduce dalle esperienze di importanti riviste come il Leonardo e Lacerba, dopo avere esplorato tutte le dottrine e tutti i sistemi filosofici, era rimasto assai affascinato dal vitalismo antipassatista di Marinetti.
Negli anni in cui fu vicino ai futuristi, Papini incontrò il giovane Evola: fu l’incontro tra due studiosi di filosofia, tra un letterato ed un pittore, tra un umanista e un dadaista, insomma, tra due spiriti estremamente eclettici.
Papini, in quegli anni, era passato dalla filosofia classica tedesca a quella dell’esistenzialismo, e aveva scritto un’importante opera dal titolo Il crepuscolo dei filosofi.
Evola, invece, si era immerso nello studio delle filosofie orientali, soprattutto buddiste, induiste e cinesi, con una particolare attenzione per gli aspetti esoterici, magici e mitologici.
Quindi, il comune amore per la filosofia fu il principale terreno del loro incontro, ma occorre rilevare che, per breve tempo, ebbero convergenze anche su tematiche artistiche: Evola, come ben si sa, era pittore ed era considerato il maggiore rappresentante italiano del Dadaismo, mentre Papini, sin dai primissimi anni della sua attività letteraria, da buon fiorentino, aveva sempre nutrito un forte interesse per le arti figurative.
Quando Papini, terminata la brevissima parentesi delle sue simpatie futuriste, nel 1919 abbracciò la fede cattolica (al termine di un lungo, sofferto e tormentato calvario di ricerca spirituale) e divenne uno scrittore cristiano a tutti gli effetti, Evola, che in quegli anni immediatamente successivi alla fine della Grande Guerra era ferocemente anticattolico e molto paganeggiante, non poté che condannare con astio, coerentemente alle idee che professava, la scelta papiniana.
E quando lo scrittore fiorentino, nel 1921, fece pubblicare la celebre Storia di Cristo, Evola, inizialmente, si rifiutò di leggere il libro, manifestando un aspro disgusto per quello che, a suo dire, era stato uno spreco di attività cerebrale e di carta stampata.
In effetti, dopo quel breve avvicinamento dovuto al comune interesse per il Futurismo, entrambi avevano intrapreso strade diversissime, così come diverse e inconciliabili erano le loro esperienze culturali, le loro concezioni ideali, i loro temperamenti e i loro interessi spirituali e religiosi.
Verso la metà degli Anni Venti, Evola scrisse i saggi poi raccolti in Imperialismo Pagano, che vennero pubblicati in volume nel 1927, cioè, sei anni dopo l’uscita della Storia di Cristo, libro che, nel frattempo, aveva ottenuto uno strepitoso successo editoriale, vendendo decine di migliaia di copie e facendo di Papini uno scrittore noto a livello internazionale.
Papini, vorace e onnivoro lettore ma polemista incallito, stroncatore furibondo e vero e proprio “guerrigliero intellettuale”, lesse il libro di Evola e ne restò non solo disgustato, ma, addirittura, inorridito. Dopo la sua conversione al cattolicesimo, i suoi interessi erano divenuti quelli di un vero e proprio scrittore cristiano: studio e meditazione della Bibbia e dei Vangeli, letture edificanti di vite di santi e di opere polemiche, dottrinali ed esegetiche dei Padri della Chiesa.
Risulta dunque ovvio che, un libro come quello di Evola, così ferocemente anticristiano e così esaltatore nei confronti della religione pagana e della Tradizione gentile dell’antico mondo romano, non poteva che suscitare il risentimento di Papini.
In uno dei suoi taccuini, lo scrittore fiorentino bollò l’ex-amico filosofo come un “lurido pagano”, mentre Evola pare che abbia commentato, all’uscita della Storia di Cristo (che si era categoricamente rifiutato di leggere), che era opera di un “papista disgustoso” che, purtroppo, aveva avuto la sventura di conoscere.
Tuttavia, successivamente, Evola lesse la Storia di Cristo, come afferma nel breve saggio intitolato Papini, pubblicato nel suo volume miscellaneo intitolato Ricognizioni. Uomini e problemi, dove a proposito del capolavoro papiniano, così sentenzia:
Solo assai tardi leggemmo, in un ospedale, la Vita di Cristo. Ebbene, rimanemmo sbalorditi del fatto che un libro del genere avesse potuto essere un “successo” e, ancor più, che la Chiesa avesse potuto tanto valorizzarlo e raccomandarlo. Esso ci sembra costituire la prova più evidente che nessuna vera, profonda crisi spirituale sia stata alla base della “conversione” di Papini, che al massimo in essa può aver agito una rinuncia interiore, il bisogno di pacificarsi e di rendersi le cose più facili traendo da un corpo fisso di credenze quelle certezze che non aveva saputo trovare dopo la fase iconoclasta. Perché in questo libro nulla vi è di trasfigurante e di trasfigurato, non si avverte il minimo mutamento di sostanza umana, uguale è lo stile, nulla vien colto o dato come dimensione più profonda del cattolicesimo e dei suoi miti: è una banale apologetica in base ai dati più esteriori, catechistici e sentimentali del cristianesimo”.
Così, nel 1927, le strade dei due grandi intellettuali italiani si divisero per sempre, in un clima di fredda avversione e di fastidio reciproco, e non si incrociarono più.
Giovanni Papini morì cieco e semi-paralizzato nel luglio del 1956, Evola morì paralitico (fu vittima di un bombardamento, nel 1945, durante l’occupazione di Vienna da parte delle armate sovietiche) nel giugno del 1974.

Dalla fine degli Anni Venti non si erano più incontrati, né frequentati: eppure entrambi, pur operando su fronti culturali diametralmente opposti, furono due tra i maggiori scrittori italiani del Novecento.