Alla
politica italiana, alla luce degli scandali dell'EXPO e del
MOSE
(prossimamente anche il TAV?), veniva richiesto a gran voce
un
segnale sulla strada della lotta alla corruzione. Puntuale,
preciso e
spedito, una “viva e vibrante” risposta è arrivata. La
Camera
dei Deputati ha approvato un provvedimento che inasprisce la
responsabilità della Magistratura permettendo a chiunque di
chiedere
il risarcimento dei danni subiti dalla Giustizia (per
manifesta
violazione di un diritto e non solo per dolo o colpa grave)
direttamente ai suoi attori e non, come avviene oggi, in
maniera
indiretta (e cioè con il tramite dello Stato). Quale potrà
essere
la naturale conseguenza di questo fatto? Difficile dirlo.
Certamente,
una pesante ombra cala sui vincitori delle ultime elezioni
(il
provvedimento è passato anche con i voti di una buona parte
del PD)
e sul Governo. Del resto, il premier Renzi aveva
recentemente
affermato che il problema della corruzione in Italia non era
dovuto
ad un deficit di regole ma alla presenza di “ladri” nelle
file
dei partiti. A tratti, questa dichiarazione ricorda quella
di G. W.
Bush allo scoppiare degli scandali finanziari di inizio
secolo che
coinvolsero (e travolsero) colossi dell'economia
statunitense come la
Lehman Brothers. L'ex Presidente USA spiegò che il sistema
andava
bene, che era forte ma che in esso si trovavano delle “mele
marce”.
L'immagine evocativa dei migliori concetti dell'agricoltura
(l'albero
è sano ma va potato di rami e frutti che lo indeboliscono)
colpì
l'opinione pubblica e venne ripreso da quasi tutti gli
organi
d'informazione. A distanza di più di un decennio un italiano
(il
Premier) riprende questo leit motiv e anziché affrontare il
problema
con il suo solito piglio (lui stesso si definisce un
politico del
“fare”) tentenna e minimizza lasciando a noi operatori
dell'informazione il sospetto che a risolvere questo
grattacapo non
possa essere la politica (che evidentemente non può o non
vuole
farlo), né la popolazione (che ha riconfermato questa classe
dirigente) ma ancora una volta la Magistratura. A tutt'oggi,
è
l'anello debole della catena che deve farsi carico della
solidità
della legatura. Per il suo stesso bene.
lunedì 16 giugno 2014
La breve polemica tra Giovanni Papini e Julius Evola
Giovanni
Papini (1881-1956) e Julius Evola (1898-1974) si conobbero durante la
breve esperienza papiniana di adesione al Futurismo, il movimento
artistico creato nel 1909 dal vulcanico Filippo Tommaso Marinetti.
Il
futuro scrittore cattolico, già reduce dalle esperienze di
importanti riviste come il Leonardo
e Lacerba,
dopo avere esplorato tutte le dottrine e tutti i sistemi filosofici,
era rimasto assai affascinato dal vitalismo antipassatista di
Marinetti.
Negli
anni in cui fu vicino ai futuristi, Papini incontrò il giovane
Evola: fu l’incontro tra due studiosi di filosofia, tra un
letterato ed un pittore, tra un umanista e un dadaista, insomma, tra
due spiriti estremamente eclettici.
Papini,
in quegli anni, era passato dalla filosofia classica tedesca a quella
dell’esistenzialismo, e aveva scritto un’importante opera dal
titolo Il
crepuscolo dei
filosofi.
Evola,
invece, si era immerso nello studio delle filosofie orientali,
soprattutto buddiste, induiste e cinesi, con una particolare
attenzione per gli aspetti esoterici, magici e mitologici.
Quindi,
il comune amore per la filosofia fu il principale terreno del loro
incontro, ma occorre rilevare che, per breve tempo, ebbero
convergenze anche su tematiche artistiche: Evola, come ben si sa, era
pittore ed era considerato il maggiore rappresentante italiano del
Dadaismo, mentre Papini, sin dai primissimi anni della sua attività
letteraria, da buon fiorentino, aveva sempre nutrito un forte
interesse per le arti figurative.
Quando
Papini, terminata la brevissima parentesi delle sue simpatie
futuriste, nel 1919 abbracciò la fede cattolica (al termine di un
lungo, sofferto e tormentato calvario di ricerca spirituale) e
divenne uno scrittore cristiano a tutti gli effetti, Evola, che in
quegli anni immediatamente successivi alla fine della Grande Guerra
era ferocemente anticattolico e molto paganeggiante, non poté che
condannare con astio, coerentemente alle idee che professava, la
scelta papiniana.
E
quando lo scrittore fiorentino, nel 1921, fece pubblicare la celebre
Storia
di Cristo,
Evola, inizialmente, si rifiutò di leggere il libro, manifestando un
aspro disgusto per quello che, a suo dire, era stato uno spreco di
attività cerebrale e di carta stampata.
In
effetti, dopo quel breve avvicinamento dovuto al comune interesse per
il Futurismo, entrambi avevano intrapreso strade diversissime, così
come diverse e inconciliabili erano le loro esperienze culturali, le
loro concezioni ideali, i loro temperamenti e i loro interessi
spirituali e religiosi.
Verso
la metà degli Anni Venti, Evola scrisse i saggi poi raccolti in
Imperialismo
Pagano,
che vennero pubblicati in volume nel 1927, cioè, sei anni dopo
l’uscita della Storia
di Cristo,
libro che, nel frattempo, aveva ottenuto uno strepitoso successo
editoriale, vendendo decine di migliaia di copie e facendo di Papini
uno scrittore noto a livello internazionale.
Papini,
vorace e onnivoro lettore ma polemista incallito, stroncatore
furibondo e vero e proprio “guerrigliero intellettuale”, lesse il
libro di Evola e ne restò non solo disgustato, ma, addirittura,
inorridito. Dopo la sua conversione al cattolicesimo, i suoi
interessi erano divenuti quelli di un vero e proprio scrittore
cristiano: studio e meditazione della Bibbia e dei Vangeli, letture
edificanti di vite di santi e di opere polemiche, dottrinali ed
esegetiche dei Padri della Chiesa.
Risulta
dunque ovvio che, un libro come quello di Evola, così ferocemente
anticristiano e così esaltatore nei confronti della religione pagana
e della Tradizione gentile dell’antico mondo romano, non poteva che
suscitare il risentimento di Papini.
In
uno dei suoi taccuini, lo scrittore fiorentino bollò l’ex-amico
filosofo come un “lurido pagano”, mentre Evola pare che abbia
commentato, all’uscita della Storia
di
Cristo
(che si era categoricamente rifiutato di leggere), che era opera di
un “papista disgustoso” che, purtroppo, aveva avuto la sventura
di conoscere.
Tuttavia,
successivamente, Evola lesse la Storia
di Cristo,
come afferma nel breve saggio intitolato Papini, pubblicato nel suo
volume miscellaneo intitolato Ricognizioni.
Uomini e problemi,
dove a proposito del capolavoro papiniano, così sentenzia:
“Solo
assai tardi leggemmo, in un ospedale, la Vita
di Cristo.
Ebbene, rimanemmo sbalorditi del fatto che un libro del genere avesse
potuto essere un “successo” e, ancor più, che la Chiesa avesse
potuto tanto valorizzarlo e raccomandarlo. Esso ci sembra costituire
la prova più evidente che nessuna vera, profonda crisi spirituale
sia stata alla base della “conversione” di Papini, che al massimo
in essa può aver agito una rinuncia interiore, il bisogno di
pacificarsi e di rendersi le cose più facili traendo da un corpo
fisso di credenze quelle certezze che non aveva saputo trovare dopo
la fase iconoclasta. Perché in questo libro nulla vi è di
trasfigurante e di trasfigurato, non si avverte il minimo mutamento
di sostanza umana, uguale è lo stile, nulla vien colto o dato come
dimensione più profonda del cattolicesimo e dei suoi miti: è una
banale apologetica in base ai dati più esteriori, catechistici e
sentimentali del cristianesimo”.
Così,
nel 1927, le strade dei due grandi intellettuali italiani si divisero
per sempre, in un clima di fredda avversione e di fastidio reciproco,
e non si incrociarono più.
Giovanni
Papini morì cieco e semi-paralizzato nel luglio del 1956, Evola morì
paralitico (fu vittima di un bombardamento, nel 1945, durante
l’occupazione di Vienna da parte delle armate sovietiche) nel
giugno del 1974.
Dalla
fine degli Anni Venti non si erano più incontrati, né frequentati:
eppure entrambi, pur operando su fronti culturali diametralmente
opposti, furono due tra i maggiori scrittori italiani del Novecento.
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